LA GRANDE MATTANZA!

Tutte le foto che seguono sono dei provini
originali delle foto di A.Lomax  (1954) conservati
nell'archivio dell'Accademia Nazionale di S. Cecila (Roma) 

Quando era bel tempo mi piaceva sedere su quello scoglio, che si proietta in mare come un alto podio, staccato dall’appicco pliocenico su cui sorge il mio paese. Di lassù si poteva ammirare lo stupendo tramonto del sole, un tramonto eccezionale, specie da giugno sino alla fine di agosto.

Infatti, in quel periodo, il sole ascende all’occaso, sempre più alle spalle dello Stromboli, quasi a volere incendiare l’attivo vulcano, ficcato in mezzo all’orizzonte come un enorme pan di zucchero, spesso rallegrato da un bianco pennacchio di fumo, che lo fa sembrare, anche, un gigantesco transatlantico in festosa crociera. Tutto questo io notavo, affascinato da tanto suggestivo scenario, siccome il mio paese si erge quasi al centro del Golfo di S. Eufemia Lamezia, sulla sponda tirrenica della Calabria.

Mentre da tutta l’estesa scogliera si spandeva un acuto profumo di alghe, che, colpendo le mie narici, mi faceva respirare a pieni polmoni, con voluttà, una cosa meravigliosa era, poi, vedere le lampare, che, calato il sole, si spingevano sempre più al largo, punteggiando il mare di cento vivide fiammelle. Di quella festa di luci avrebbero fatto le spese quintali e quintali di alici argentee e guizzanti, le quali, attratte da tanto bagliore, si sarebbero lasciate prendere nell’agguato mortale delle reti.

Queste cose io potevo ammirare da un giorno all’altro, senza stancarmi mai, perché lo spettacolo, anche se promosso dagli stessi uomini e dagli stessi elementi scenici, era, sebbene ricorrente, pur sempre bello.

Nelle giornate di tempesta le onde fragorose smorzavano la loro furia ruggente contro la massiccia barriera degli scogli ed a me piaceva sentire sulla faccia la carezza live degli spruzzi nebulizzati, che il vento mi portava, dopo averli rapiti alle smerlettate creste dei marosi spumeggianti.

Accanto a me, spesso, era un vecchio pescatore, Giovanni, soprannominato «Giappone», perché imbarcatosi da giovane su navi mercantili, aveva compiuto lunghi viaggi nell’Estremo Oriente. Anzi, per ben due volte, vi aveva fatto naufragio, salvandosi, in entrambe le occasioni, grazie all’aiuto di pescatori giapponesi, particolarmente abili e temerari in mezzo alle ciclopiche bufere, che squassano i mari del loro pittoresco arcipelago.

Egli sapeva raccontare con efficacia, anche se non aveva studiato, e ricordava, pronunciandoli correttamente, i nomi delle molte località toccate nel suo vagabondare per mare.

Era un bel vecchio, «Giappone». Aveva la faccia, cotta dal sole e dalla salsedine, scavata da lunghe rughe profonde, dove non era ricoperta dalla folta barba bianca, che gli donava un’aria solenne, ieratica, come quella di un biblico patriarca. Dalla sua strana pipa, vendutagli da un indigeno delle Molucche, non si stancava di tirare del fumo con ampie boccate, visibilmente compiaciuto per le prestazioni della sua «ciminiera», come egli, affettuosamente, soleva definire la sua vecchia, inseparabile pipa. Le sue avventure erano state numerose, tragiche e comiche. Non priva di brivido e di «suspense» era quella capitatagli al largo di Singapore, allorché con altri venti compagni, dopo che la nave era affondata a causa di uno spaventoso tifone, si era trovato su una scialuppa dal fasciame sconnesso, circondata dagli squali, pronti a ghermire chiunque, per stanchezza o per disattenzione, fosse caduto in acqua.

Invece, imbarazzante era quella accadutagli ad Aden, allorché un arabo gli voleva vendere la propria figliola quindicenne per poche lire, avendo mal capito un segno di ammirazione che «Giappone» - come ho già detto – vanta, oltre a diversi ricordi storici, fra cui la fucilazione di Gioacchino Murat, anche delle attività peculiari, come quella di una tonnara, ormai disattivata da anni, il cui anno di nascita si perde nella notte dei tempi. La ingegnosa trappola era tesa alla fine di una lunghissima rete di sbarramento, che, partendo dalla spiaggia «Seggiòla», raggiungeva la tonnara vera e propria a circa due miglia verso il largo; essa rimaneva in attività per un periodo che andava dai primi giorni di maggio, fino alla seconda decade di giugno, cioè quando il tonno si avvicinava alla costa per la riproduzione e vi trovava, insieme, amore e morte.

La tonnara offriva da vivere ad un centinaio di pescatori e rappresentava una delle poche fonti di lavoro e di guadagno per la gente di questa povera zona della costa calabra.
Le annate di pesca erano legate alle alterne vicende della stagione e, quindi, del mare; esse non erano sempre ricche, anche se, raramente, risultavano deficitarie, tranne che non si fossero commessi errori nel predisporre il complesso sistema delle reti formanti, in blocco, la tonnara.

Tale sistema, tenuto segreto fra poche famiglie di tonnarotti, veniva tramandato gelosamente da padre in figlio. Colui che si assumeva la responsabilità di far collocare le reti era quasi sempre persona anziana, assai esperta, quindi, e prendeva il nome di «rais», cioè di capo della ciurma, secondo un termine mutuato dagli arabi, qui venuti da dominatori, i quali avevano per primi ideato il marchingegno della tonnara così come arrivata ai nostri tempi.

Dalla capacità del «rais» dipendevano le sorti della pesca; se sbagliava, un danno gravissimo si abbatteva sulle spalle del finanziatore dell’impresa, il quale rischiava un cospicuo capitale.
Dunque, moltissimi anni fa «Giappone» asseriva che un «rais» bravissimo di nome Emanuele, era stato gettato in carcere, perché si era al 10 di giugno e la tonnara non aveva pescato niente, nemmeno un solo tonno, così come la consuetudine voleva, affinché egli fosse scagionato da ogni responsabilità. Il povero «rais» Emanuele, dalla grata della prigione, guardava disperato il mare calmissimo e la tonnara affogata nel sole cocente dell’estate ormai prossima. Egli ripassava nella propria mente tutte le operazioni che aveva fatto compiere ai tonnarotti per calare, nei modi dovuti, le reti in acqua. Se le ripeteva cento volte il giorno, senza scoprire nulla che non andasse bene, che non fosse stato fatto come negli anni precedenti, quando la pesca del tonno era stata sempre copiosa ed a lui, di riflesso, erano stati elargiti premi particolari e attestati di benemerenza.

Certamente non dipendeva da eventuale sua inettitudine se, quell’anno, non c’era stato ancora lo spettacolo cruento e affascinante della mattanza, ultimo capitolo della vita libera dei tonni, fatta di corse veloci nelle limpide acque del Mediterraneo.
Ed allora, perché la tonnara non pescava? Perché tanta iattura era piombata su di lui? Mentre così tormentava il suo cervello, sentì suonare la campana annunciante la solenne processione dell’indomani in onore di Sant’Antonio da Padova.

Buono e pio come era, il buon «rais» cadde in ginocchio e, col cuore colmo di dolore, si mise ad invocare a gran voce la protezione del Santo, chiedendo:
- O miracoloso Sant’Antonio, domani, 13 giugno, proprio allo scadere del periodo propizio alla pesca, fammi la grazia di fare entrare almeno un solo tonno nella trappola, affinché sia chiaro a tutti che io non ho commesso errori di sorta!... -.

Così pregò, sino a quando, travolto dal nodo di pianto che lo stringeva alla gola, più non gli riuscì di parlare.

L’indomani, una brezza sostenuta fece increspare il mare, creando condizioni ideali per indurre i tonni a muoversi lungo l’arco del Golfo, facendoli finire, poi, contro la rete di sbarramento della tonnara e, quindi, nell’intricato labirinto della trappola insidiosa, ove vanamente si sarebbero dibattuti, fra un ribollire di spume, causate dai possenti colpi delle loro code, alla disperata ricerca di una via di scampo verso il libero mare aperto, perduto per sempre!

Il povero «rais» Emanuele guardò fuori dalla grata della cella, rinnovando, più fervida, la preghiera fatta la sera prima a Sant’Antonio. Poi, quando la statua del Santo già avanzava in processione per le vie del paese, accompagnata dalla moltitudine dei fedeli e del clero salmodiante, fra scoppi di mortaretti e di allegre marcette di una rumorosa banda musicale, al suo occhio esperto non sfuggì un insolito movimento fra le barche della tonnara, là ove è posta la cosiddetta «camera della morte».
Poco dopo, infatti, sul pennone della barca più grande vide innalzarsi il convenuto segnale, preannunciante l’imminente mattanza.

Non c’era dubbio: la tonnara si apprestava a pescare! I tonnarotti, fra poco, tirando su la pesante rete della «camera della morte», avrebbero intonato le loro lunghe nenie, fatte di frasi semplici e toccanti, con ringraziamento al buon Dio e al loro padrone, il quale avrebbe loro elargito una ricca mercede, proporzionata alla quantità del pescato, mentre ai tonni, avrebbero chiesto di perdonarli per la crudele morte a cui li avrebbero destinati.

Era, dunque, la fine di un incubo tremendo, che rischiava di fare impazzire l’esperto ed onesto «rais», se non si fosse risolto in bene, col sapore di un miracolo; di un miracolo di altri tempi, allorché gli uomini, più buoni di quelli di oggi, lo meritavano!

E riuscì davvero una giornata memorabile, quella, perché furono catturati più di 13.000 tonni, tanto che non si sapeva dove metterli, quando venivano scaricati a riva dalle barche ed ammucchiati sulla lunga spiaggia. Perciò, fu consentito a chiunque di portarne via quanti più potesse, ed anche dai paesi vicini vennero a prenderne in gran copia, quando la notizia della pesca eccezionale si sparse.

L’arrosto di tonno fu il cibo più consumato per parecchi giorni sulle mense di una vasta zona della Calabria e sfamò migliaia di poveri, i quali mai avevano potuto mangiare con tanta abbondanza e a così poco prezzo!...

Il buon «Giappone», finendo di raccontare, aveva gli occhi lucidi di commozione e di gioia: davanti ai suoi occhi cilestrini riviveva la pesca miracolosa di quel lontano 13 giugno di tanti e tanti anni fa!

di DAVID DONATO
(5 ottobre 1926 - 20 gennaio 2009)
Poeta, commediografo, scrittore e giornalista.
Estratto dalla raccolta “Carosello Pizzitano” (1979)


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