IL 48 NELLA RADA DI SANTA VENERE, TRA RIVOLUZIONE, ESPLOSIVI ED AUDACIA
Il contributo dei patrioti vibonesi all’unificazione di Saverio Musolino *
Qual è stato il contributo della Calabria al processo di unificazione dello Stato Italiano? E quale, nella specie, l’apporto dei patrioti originari del circondario vibonese? Chi volesse rispondere all’interrogativo consultando i manuali in uso nelle scuole troverebbe pochi elementi. Della Calabria risorgimentale, in quei testi - che sono quelli su cui si sono formate e continuano a formarsi generazioni di italiani - vi è molto poco: si parla certo dei Fratelli Bandiera, che però erano veneziani e che in Calabria trovarono solo la morte. Poco o nulla si dice dell’apporto dei calabresi al buon esito della spedizione dei Mille, omettendo di evidenziare il ruolo avuto da Benedetto Musolino (foto), di Pizzo, che la notte dell’8 agosto 1860, su disposizione dello stesso Garibaldi, attraversò lo Stretto al comando di 200 uomini, a bordo di piccole barche, per assaltare il Forte di Altafiumara: l’impresa non riuscì per il tradimento di alcune guide, ma i 200 riuscirono a riparare sull’Aspromonte dove, oltre a svolgere un’attività di guerriglia, presero contatti con le comunità locali, agevolando la venuta del Dittatore, che sbarcherà nei pressi di Melito una decina di giorni dopo. La vicenda è testimoniata da una stele marmorea, apposta in S.Trada dal Comune di Villa San Giovanni nel 1961 e da una corrispondenza epistolare attraverso le due sponde dello Stretto, tra il patriota calabrese e il Dittatore. Dell’apporto dei “prodi calabresi” alla spedizione ne darà atto in un noto proclama lo stesso Garibaldi il quale, dopo aver superato la resistenza borbonica in Calabria, “viaggerà” speditamente verso Napoli e il Volturno. Altrettanto inspiegabile è la reticenza dei manuali sulla setta dei Figlioli della Giovane Italia, fondata nel 1832 da Benedetto Musolino, che fu l’unica Giovane Italia diffusa nel meridione, dove di Mazzini non arrivò che l’eco di alcune pubblicazioni: quella setta era diversa e contrapposta per organizzazione a quella del patriota genovese, ma da una certa storiografia viene a quella omologata. L’equivoco è stato perpetrato anche nel recente film “Noi credevamo” ad opera del regista Martone, che ha coscientemente oscurato la setta del Musolino, di cui faceva parte il patriota Domenico Lopresti, anch’egli di Pizzo, che nella fantasiosa versione cinematografica diventa campano e mazziniano. Sulla vicenda, com’è noto, vi è stata la vibrata protesta del Presidente della Provincia di Vibo Valentia, Francesco De Nisi, l’unico rappresentante delle istituzioni calabresi che ha inteso reagire al “sopruso” perpetrato ai danni di un’intera regione, rivendicando la genuinità dell’apporto dei patrioti calabresi e vibonesi in particolare, tanto da indurre il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a prendere posizione sulla vicenda e a negare al film in questione ogni valenza documentaristica, definendolo come una mera e “libera espressione artistica”. C’è da augurarsi che qualcuno riferisca questa verità al regista Martone, il quale continua a pontificare da tutti gli schermi e ad osannare quell’opera come espressione di un resoconto storico. E c’è da auspicare che questo aspetto venga posto nel giusto rilievo quando, tra non molto, l’opera, dalle sale cinematografiche, entrerà nelle case di tutti gli italiani, attraverso il piccolo schermo. Tornando alla domanda iniziale, la risposta dovrà essere ampiamente affermativa se, prescindendo dai testi scolastici, si ha riguardo ai fatti realmente accaduti, come testimoniati da una serie di studi e documenti che i manuali continuano ad ignorare. Ne emerge il ruolo attivo della Calabria, vera spina nel fianco della Monarchia Borbonica: fu proprio il vibonese, infatti, l’epicentro della cospirazione. Detto della setta del Musolino, concepita a Pizzo, si deve rilevare come, nel 1848, fu proprio in Calabria che venne organizzata la più vibrata reazione al voltafaccia del Re Ferdinando II, che aveva abiurato la concessa Costituzione: a Cosenza fu istituito un Governo provvisorio rivoluzionario - sotto la guida del Ricciardi, cui parteciparono anche il Musolino e il cosentino Domenico Mauro - che organizzò le operazioni rivoluzionarie, proponendosi non solo la liberazione dal Borbone, ma l’unificazione della Penisola, come inequivocabilmente testimoniato dal nome dell’organo ufficiale di informazione: “L’Italiano delle Calabrie” (diverse copie sono custodite nella Biblioteca civica di Cosenza). Il vibonese fu teatro di sanguinosi scontri con le milizie borboniche, dalla battaglia dell’Angitola all’eccidio di Pizzo del 29 giugno 1848, ove i borbonici, dimentichi delle benemerenze della cittadina per l’ausilio dato nella cattura del Murat, si vendicarono dei patrioti e dei Musolino in particolare, mettendone a ferro e fuoco il palazzo, lasciandosi dietro morte e distruzione.
Dalle vicende narrate dagli stessi protagonisti (Benedetto Musolino, “La rivoluzione del 1848 nelle Calabrie”), emergono anche gesti audaci, che possono stimolare la fantasia dei più giovani, come quello compiuto da alcuni patrioti napitini (tra i quali figurano Paolo Vacatello, Basilio Mele, Fortunato Valotta, Pasquale Musolino e Sebastiano Rosi), che, passando inosservati sotto il naso delle guarnigioni borboniche, raggiunsero il porto di Santa Venere (l’odierna Vibo Marina), prendendo d’assalto una feluca borbonica carica di esplosivo, riuscendo a caricare sulla loro barca e a trasportare presso la foce del fiume Angitola la polvere da sparo necessaria al campo di Filadelfia.
Le istituzioni locali, in primis quelle scolastiche, dovrebbero aiutare a riscoprire le gesta di quei patrioti, rese tanto più difficili in quanto svolte in un contesto particolare, tra le rappresaglie borboniche e l’indifferenza delle masse, che, occupate dai problemi di sussistenza quotidiana, non comprendevano il più delle volte il valore di quelle gesta. I movimenti risorgimentali furono, infatti, per lo più espressione di poche menti “illuminate”, non scaturirono in rivolte di popolo; coinvolgimenti delle masse vi furono nei fatti rivoluzionari del ’48 e, soprattutto, nel ‘60, quando le popolazioni vennero catalizzate dal carisma di Garibaldi, il quale diede prontamente riscontro alle sue promesse, concedendo le terre incolte ai contadini, con i noti decreti di Rogliano, che ebbero tuttavia breve durata (e tralasciamo qui di parlare della disillusione e delle rivolte che seguirono alla revoca di quei provvedimenti, che alimentò il fenomeno del brigantaggio).Ciò non vuol significare che quei patrioti costituirono delle eccezioni, delle monadi, delle meteore proiettate chissà da quale pianeta: furono uomini che vissero e si formarono in quel medesimo contesto, furono - per tornare al Musolino e ai patrioti vibonesi - espressione dell’ambiente politico–culturale di Pizzo e di Monteleone, realtà che costituivano, allora più di oggi, un ambiente che viveva in una simbiosi quasi perfetta. Furono eredi di quella elite che aveva sposato le tesi illuministiche e egalitarie propugnate dalla Rivoluzione francese e che, nel 1799, portò all’esperienza, breve ma intensa, della Repubblica Partenopea: lo stesso Benedetto Musolino era figlio di Domenico Musolino e nipote di un omonimo Benedetto, che avevano piantato l’albero della libertà a Pizzo e che poi subirono la sanguinosa reazione delle orde del Cardinale Ruffo, che riconquistò il regno ai Borboni. Ma agli ideali illuministici non furono insensibili neppure esponenti di primo piano delle gerarchie ecclesiastiche: in primis Mons. Serrao, da Filadelfia, divenuto in seguito vescovo di Potenza, dove piantò l’albero della libertà e giustificò, legittimandole agli occhi dei suoi fedeli, le idee propugnate dalla Repubblica napoletana; anch’egli ebbe a pagare tale scelta illuminata, cadendo per mano reazionaria. Anche l’abate Jerocades, originario di Parghelia, aderì alla Repubblica partenopea e diede un contributo all’affermazione delle tesi illuministe, attraverso i suoi scritti, che influenzarono una generazione di patrioti. È però la cattura e uccisione del Murat, avvenuta a Pizzo nel 1815, a fare definitivamente da spartiacque: da una parte i lealisti borbonici, che nella vicenda trovarono modo di acquisire onorificenze, dall’altra coloro che trassero dalla vicenda la forza per reagire, diventando ribelli, cospiratori, liberali, rivoluzionari. Partendo da questo retroterra politico e culturale si spiegano non solo l’affermarsi della setta dei Figlioli della Giovane Italia, ma ancor prima i moti del ’20-’21, che nascono in ambienti militari, per mano di giovani imbevuti di idee libertarie e carbonare, come l’ufficiale vibonese Michele Morelli. Quei moti porteranno alla concessione della Costituzione da parte del Re Ferdinando I e, una volta sedati, alla repentina revoca, secondo un copione che si ripeterà circa 27 anni dopo quando, nel 1848, Ferdinando II revocò la concessa Costituzione, perdendo un’occasione unica per tentare, con l’ausilio e gli auspici degli stessi patrioti meridionali, di indirizzare la storia d’Italia verso un altro esito, con l’unificazione da Sud di uno Stato federale. Ma su tutto prevalse la conservazione e la reazione, per ulteriori 12 anni. Queste esperienze fecero comprendere, una volta per tutte, ai patrioti meridionali che non ci sarebbe mai potuta essere una unificazione sotto i Borbone e li indusse a resistere alle lusinghe dell’ultimo Re della stirpe, Francesco II, spodestato da Garibaldi. Conseguenza quasi inevitabile della caduta dei Borbone fu la consegna del Regno meridionale e del futuro del Paese, oramai unificato, nelle mani del Re Savoia, certamente un monarca costituzionale ma molto più distante. L’unificazione si rivelerà, per molti versi, una vera e propria annessione, con l’estensione, a volte anche con l’uso della forza, dell’ordinamento sabaudo a tutto il Paese, compreso quel Mezzogiorno che era così peculiare e meritava una maggior attenzione alle proprie specificità. Da qui la disillusione da parte di molti di quei patrioti che avevano appoggiato lo Stato monarchico e unitario: ma questo è un altro capitolo, mentre oggi intendiamo rievocare la liberazione da una tirannia – e certo tale era la dinastia borbonica – e il contributo della Calabria alla nascita dello Stato unitario.
* discendente di Benedetto Musolino e curatore del sito www.benedettomusolino.it
Articolo redatto da Saverio Musolino per l'inserto speciale dedicato dalla Gazzetta del Sud al 150° anniversario dell'Unità d'Italia. Estratto da: Ufficio Stampa Provincia Vibo Valentia
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